Nati al Vestuti

Calcio da strada

Oggi ci si lamenta della mancanza di strutture sportive a Salerno, ma nei primi anni ’70 per i “Nati al Vestuti” fare sport era veramente difficile, se togliamo le 2 ore settimanali di educazione fisica a scuola e qualche palestra che però serviva solo per “abbuffare” i muscoli ai più grandi in vista dell’estate. Le strutture dello stadio offrivano un po’ di atletica leggera, pallavolo, pallacanestro, boxe, judo e scherma. In alternativa, c’erano i campi da tennis di Torrione. Ma il tennis era ancora sport di elite, ancora dovevano arrivare i successi cileni in coppa Davis di Panatta, Bertolucci, Barazzuti e Zugarelli. Quindi, fare sport per noi ragazzi del tempo si riduceva alla classica “sfidetta” di calcio in luoghi strategici della città che erano meno affollati di auto rispetto ad oggi.

Piazza Casalbore era il massimo, perché si emulavano le gesta dei nostri beniamini proprio di fronte al Vestuti. Il “campo” in asfalto era quasi regolamentare e si potevano organizzare vere partite 11 contro 11. Il Bar Stadio era il nostro sponsor, nel senso che ci dissetava gratis con l’acqua di rubinetto, non senza pochi malumori quando entravamo sporchi, sudati e a volte sanguinanti. Via Piave, sede mattutina del mercatino rionale, nel pomeriggio offriva almeno due campi divisi dalla strada. In genere, si giocava 7 contro 7.

Nei vari slarghi tra le palazzine popolari di Via Paolo De Granita, si poteva giocare solo “su invito” dei rappresentanti delle palazzine stesse, “organizzatori” della partita. Stesso discorso per lo slargo del Rione Mutilati, quartiere salernitano conosciuto anche come “Repubblica Libera dei Mutilati”. In Piazza della Concordia (foto di copertina), se sgombra dai bus destinati ai paesi della provincia, si organizzavano mitiche partite che in estate erano seguite immancabilmente dal tuffo “ngopp’ ‘o Penniell” (il Pennello identifica quel tratto di banchina del porto turistico che “supera” l’imbarco tradizionale e si “allunga” verso il mare, nda).

Le partite si svolgevano in modo atipico sul Lungomare, perchè inframezzato da piazzette con aiuole e palme. Molto gettonati i raccattapalle, visto che il pallone finiva spesso in mare e veniva ripreso grazie al “cuoppo” (piccola rete a forma di cono, nda) dei pescatori presenti. In tutti questi luoghi le porte erano segnate dai cappotti e giubbotti, che i Vigili Urbani sequestravano e restituivano solo in cambio del Super Santos. La porta era la saracinesca abbassata di un negozio o di un garage: indimenticabile il “suono” provocato da un gol (che in realtà equivaleva ad una pallonata contro il metallo), in particolare nei pomeriggi estivi ed afosi quando i grandi si concedevano la pennichella.

Una partita vera e propria si poteva organizzare sui campi dell’abbandonato Seminario Diocesano (ora Teatro delle Arti, Istituto Artistico e parco pubblico). Si doveva però fare una bella scarpinata e poi si constatava amaramente che i 3 campi erano già occupati e “presidiati” da altre squadre in attesa. Si poteva ripiegare sul campo delle cosiddette “due buche”, ad uso e consumo di articolazioni e indumenti. Se si frequentava l’Oratorio di San Francesco, si poteva giocare sul campo dei Frati Cappuccini, ma qui l’affollamento era veramente notevole a causa della concentrazione di ragazzi di numerosi quartieri della città.

Grazie all’ausilio di qualche papà, a volte si otteneva l’uso del campo dei Salesiani (un campo vero che, seppur in asfalto, era dotato di porte, reti e strisce di delimitazione) e scattava la festa. Ci si organizzava per il match circa una settimana prima e ci si industriava per il completino, cercando maglie bianche o rosse, colori che più o meno tutti avevano. In quello scenario non potevamo certo usare gli abiti di tutti i giorni, come facevamo altrove.

Io che giocavo in porta mi organizzavo prendendo un maglione per lutto da mia madre (all’epoca i portieri vestivano quasi esclusivamente di nero) e lo abbellivo con strisce di nastro isolante. Sul dorso applicavo un bel numero 1 bianco o giallo. Completavano la divisa il pantalone della tuta, i calzettoni e le mitiche scarpe Mecap. Da mio padre prendevo i guanti da pioggia, che fermavo sul polso col solito nastro isolante. Per la cronaca, su quel campo, contro le rappresentative fortissime si perdeva con scarti paurosi.

[foto di copertina da zerottonove.it]

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